Riabitare il mondo

Scrivere di musica è come ballare di architettura. Quale linguaggio per la città contemporanea?

Di Elena Battaglini

Forse noi siamo qui per dire: casa ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutti, finestra, al più: colonna, torre…Ma per dire, comprendilo bene oh, per dirle le cose così, che a quel modo, esse stesse, nell’intimo,mai intendevano d’essere. Non è forse l’astuzia segreta di questa terra che sa tacere, quand’essa sollecita gli amanti cosiche ogni cosa, ogni cosa s’esalta nel loro sentire? Soglia: oh, pensa che è, per due che si amano logorare un po’ la propria soglia di casa già alquanto consunta anche loro, dopo dei tanti di prima, e prima di quelli di dopo leggermente. Qui è il tempo del dicibile, qui la sua patria (origin.: Heimat).(R. M. Rilke, Elegie Duinesi, IX elegia, traduzione di Enrico e Igea De Portu) La forma di vita propria dell’essere umano è legata al linguaggio: la più importante ed elementare forma simbolica, il terreno su cui matura la comprensione di noi stessi e del mondo,attraverso diverse direzioni: il momento logico e quello mitico, l’intuizione estetica e il pensiero discorsivo. Tutte queste forme sono racchiuse in esso, senza peraltro che il linguaggio possa risolversi in una di esse. Eppure il nostro sistema d’insegnamento ancora insiste nel far apprendere ai bambini che il ‘sostantivo’ è un nome di persona, di luogo o di cosa, che il verbo è una parola che indica un’azione e così via. Fin dalla più tenera età impariamo cioè che una cosa si definisce mediante ciò che si suppone essa sia in sé, e non mediante le sue relazioni con le altre cose.

«Se potessi spiegarlo a parole, non avrei bisogno di danzarlo» (Isadora Duncan). La cultura testuale collega, infatti, la parola a un’ontologia rigida delle cose.Dall’essere modalità di relazione, funzione loro propria, nella cultura analitica e testuale le parole sono invece consideratespecchio di una realtà supposta vera, costringendocosì a raccogliere le cose in tassonomie (‘logos’indica un legare) capaci di costituire un’idea, un concetto, che possa rappresentare un universale che possa avere valore per molti, se non per tutti. Insostanza, la cultura testuale ‘inchioda’a un nome il suo significato incapace di cogliere la mutevolezza dell’essere e, forse, di quel che le cose intendono essere nell’intimo a cui allude Rilke nella Nona Elegia. L’accessibilità della rete e delle vaste informazioni disponibili sta tuttavia cambiando la nostra mente e le nostre modalità di pensiero: il digitale implica il salto ad un altro piano logico del pensiero e obbliga a costruire le informazioni e le proprie modalità di trasferimento sul piano delle immagini e delle metafore; in una parola, del ‘senso’. Con l’accesso a milioni di informazioni,senza la mediazione di autorità intermedie, o di caste sacerdotali di vario credo, il digitale ci assegna la responsabilità diosservare come sisvolge la produzione delle idee. Nel mondo digitale un’idea, infatti,non procede come un flusso analogico che incontra un altro flusso che sbatte, come direbbe Gregory Bateson, come una pallina contro un’altra nel gioco del biliardo): derivada altre ideeche,per analogie e differenze, si ricombinano con altre producendo qualcosa di nuovo, una proprietà emergente che, secondo la teoria dei sistemi, è una nuova informazione, qualcosa che va al di là della somma dei due flussi originari. E mi viene in mente l’immagine del Terzo paradiso di Pistoletto, in cui i due piani spaziali del segno d’infinito ne producono un terzo. Ed è in quel salto tra i due piani, è in quello scarto invisibile che la meraviglia si annida, producendo nuove riflessioni.

Se si compie questo salto,che fa accedere ad un altro piano logico, aumenta l’apprendimento: il mondo digitale offre infatti una prospettiva tale per cui singole unità informative possono essere viste da molteplici punti di vista, aumentandone a dismisura la loro ampiezza semantica, il loro senso e, quindi, le possibili fruizioni. E’ proprio l’accesso a nuove informazioni a rendere la nostra visuale più estesae,in questo passaggio a livelli superioridi senso, la conoscenza personale si dilata arricchendosi di nuove, e diverse, cornici prospettiche.Il digitale cambia le nostre menti perché ci induce ad apprendere, e a predisporci, per un altro livello logico di conoscenza, utile a comparare, tra loro, le classi di classi delle informazioni digitalizzate e tentare di padroneggiarne il senso. Detto in altri termini, siamo talmente travolti dall’ampiezza e profondità delle informazioni accessibili, che siamo obbligati a classificarle. Quale linguaggio per la città contemporanea? In G. Caudo e M. Pietropaoli (a cura di), Riabitare il mondo. In corso di pubblicazione con Quodlibet.(che sbatte, come direbbe Gregory Bateson, come una pallina contro un’altra nel gioco del biliardo): deriva da altre idee che,per analogie e differenze,si ricombinano con altre producendo qualcosa di nuovo, una proprietà emergenteche, secondola teoria dei sistemi,è una nuova informazione, qualcosa che va al di là della somma dei due flussi originari. E mi viene in mente l’immagine del Terzo paradiso di Pistoletto, in cui i due piani spaziali del segno d’infinito ne producono un terzo. Ed è in quel salto tra i due piani, è in quello scarto invisibile che la meraviglia si annida, producendo nuove riflessioni. Se si compie questo salto, che fa accedere ad un altro piano logico, aumenta l’apprendimento: il mondo digitale offre infatti una prospettiva tale per cui singole unità informative possono essere viste da molteplici punti di vista, aumentandone a dismisura la loro ampiezza semantica, il loro senso e, quindi, le possibili fruizioni. E’ proprio l’accesso a nuove informazioni a rendere la nostra visuale più estesae,in questo passaggio a livelli superiori di senso, la conoscenza personale si dilata arricchendosidi nuove, e diverse, cornici prospettiche. Il digitale cambia le nostre menti perché ci induce ad apprendere, e a predisporci, per un altro livello logico di conoscenza, utile a comparare, tra loro, le classi di classi delle informazioni digitalizzate e tentare di padroneggiarne il senso. Detto in altri termini, siamo talmente travolti dall’ampiezza e profondità delle informazioni accessibili,che siamo obbligati a classificarle. Questa nuova classificazione si colloca suun piano logico ancora inesplorato. Il salto di paradigma, che Ulrich Beck chiama metamorfosi del mondo, è definito da questa transizione che potrebbe avere la portata di quanto avvenne nella Grecia attica del V Secolo, nel passaggio dalla cultura mitica a quella del logos. Il pensiero digitale raccoglie e mette al vaglio alcuni degli infiniti particolari a cui obbliga la descrizione analogica. Sbarazzandosi delle zavorre dell’informazione ridondante si apre in favore di enunciati riassuntivi ed essenziali. L’informazione digitalizzata metaforicamente assomiglia a un iceberg di cui vediamo solo la punta: quel leggero e denso minuto di sintesi che magari scaturisce da ventiquattro anni di analisi. La digitalizzazione porta dunque a compimento la rivoluzione operata, all’esordio del Novecento, dall’astrattismo in pittura. Fino ad allora dominava la pretesa di descrivere le cose, i fatti e le persone arrogandosi la capacità di rappresentarle nella loro piena ‘realtà’. Tuttavia, nulla che pretendiamo di descrivere lo possiamo cogliere nella sua intima verità.
Un ottimo esempio a supporto di queste considerazioni è quello fornitoci da Gregory e Mary Catherine Bateson (1987, trad. it. 1989: 241). Qui,si racconta che Picasso, in treno, fu interpellato da uno sconosciuto che gli chiese con aria di sfida: «Perché non dipinge le cose così come sono?»Picasso rispose mitemente che non capiva bene il senso di quella domanda; allora lo sconosciuto estrasse dal portafogli una foto di sua moglie. «Voglio dire questo» rispose. «Ecco, mia moglie è così». E Picasso, con un colpetto di tosse imbarazzato: «È piccolina, no? E anche un po’ piatta …».La verità, l’essenza delle cose, come già scriveva Kant in riferimento alla Ding an Sich, è irraggiungibilein sé. Tuttavia, scriviamo noi, vi si può avvicinare, esitando, con l’immaginazione. Solo così,la soglia della meravigliasi apre. Per effetto della rivoluzione digitale, la cultura discorsiva e testuale,che ha segnato la storia della cultura umana, è ormai arrivata giunta al punto di non ritorno. A partire dagli anni Duemila, infatti,una concatenazione di innovazioni disruptive nel settore dell’ICT(Information and Communication Technologies) ha avviato ii processo che, ormai,prende il nome di Quarta Rivoluzione Industriale. Con questa definizione si intende la crescente compenetrazione tra mondo fisico, digitale e biologico in riferimento ai progressi in intelligenza artificiale (IA), robotica, Internet delle Cose (IoT), stampa 3D, ingegneria genetica, computer quantistici e altre tecnologie. A differenza delle precedenti tre, questa rivoluzione sta cambiando la nostra mente perché sostiene la propensione verso l’integrazione della parte analitica del cervello umano, quella sinistra, che parla per elenchi, con quella destra, creativa e immaginale che parla per storie, forme, metafore e, quindi, per relazioni e differenze. Come molti studi dell’equipe di Stefano Mancuso (klikka per video ) hanno dimostrato, la lingua degli organismi biologici,quella della relazione, si esprime in un modo molto vicino alle storie (e alle metafore, in particolare). Lo stesso Gregory Bateson ne era convinto: «Nella metafora due proposizioni complesse sono collocate una accanto all’altra e, in qualche misura equiparate: l’affermazione è espressa dalla giustapposizione.» Invece il sistema linguistico-discorsivo, che si struttura prevalentemente nell’area sinistra del cervello umano, è imperniato su una relazione soggetto-predicatoe, quindi: «(…) costruisce catene causali lineali grazie al rischioso accorgimento di identificare l’implicazione logica (per cui le idee seguono l’una dall’altra) con la causalità fisica (per cui gli eventi seguono l’uno dall’altro)»(BatesoneBateson 1987, trad. it. 1989,ppp.283-284).
Metafora deriva dal greco meta-phorein, che si può tradurre come qualcosa che porta fuori, verso ciò che il linguaggio analitico-discorsivo, le parole cioè,non possono dire. E’ uno strumento per catturare l’inafferrabile, è una rete per catturare nuvole, una trappola per il vento, un altare per onorare gli Dei. In questo senso, Gaston Bachelard (1957)scriveva che le immagini poeti che sono variazionali, vibranti: consentono libertà, trasformazioni, mentre il concetto è costitutivo, definitorio, difficile sfuggirne .Le immagini,le forme, poi, non si assoggettano, come le parole, al lavorio costante della mente che le definisce, non entrano subito a far parte del conosciuto, e rimangono sospese in noi, come il sogno, come l’immaginazione, senza parole. Di fronte a un’immagine possiamo provare incanto, rapimento ma anche inquietudine o terrore;certo è che non ne rimarremo imbrigliati così come succede con le parole che, come la cultura popolare insegna, sono pietre. Vi è inoltre un’irrealtà straziante nell’insegnamento delle parole: i sostantivi connotano infatti parti singole e ridotte da qualcosa di più ampio: sono come morte. Senza evidenziare la relazione, le singole parole sembrano scorporate, avulse dal contesto in cui nascono e a cui magari alludono. Senza l’esplicitazione delle connessioni, invece di rendere visibili le storie sottese alle cose, le parole, così come gli oggetti che pretendono di descrivere,ci vengono restituiti essenzialmente come ‘fissi ed inanimati’, scriveva Coleridge. L’arte, la relazione, l’arte delle forme, dei volumi, delle strutture musicali inizia laddove il linguaggio logico-discorsivo non può arrivare. «Scrivere di musica è come ballare di architettura», diceva Frank Zappa a cui facevano eco, con alcune varianti, dei giganti come Thelonius Monk, Steve Martin, Martin Mull ed Elvis Costello. E se il linguaggio della relazione è quello metaforico, allora la città contemporanea ha bisogno di un linguaggio che dia forma simbolica ai luoghi in cui matura la comprensione di noi stessi e del mondo. E proprio su quel piano logico di senso, ove si colloca la metafora, l’architettura e l’urbanistica si ridefiniscono innanzitutto come metodo, non soltanto per dare forma alla città ma per vivificarne le relazioni. Forse così il progetto diventerà un ascolto volto a rigenerare lo spazio, a consentirgli di riverberare nuovo senso, a riconnettere trame insediative precedentemente interrotte. E chissà, infine, se inscrivere la relazione nelle nostre architetture ci potrà permettere di fare, delle nostre comunità urbane, delle vere orchestre. E chissà se queste orchestre potranno dire la città così, che a quel modo, essa stessa, nell’intimo, intendeva d’essere. Come scriveva Rilke nella nona Elegia,qui è il tempo del dicibile, questo è il tempo dell’”abitare” … E questo è il tempo per dire Heimat con nuovi linguaggi e su un diverso piano di senso, rispetto a quanto Rilke (ma anche Heidegger) ci hanno lasciato in eredità.

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